Laggiù, nella foresta di pilotis, pini e oleandri

Il Villaggio Olimpico di Roma, ideato da Moretti insieme a Luccichenti, Libera, Cafieri e Monaco e costruito in occasione della XVII Olimpiade di Roma del ’60, rappresenta un raro esempio di come un canovaccio tematico possa essere eseguito con estrema coerenza nell’ambito di una convergenza di obiettivi e funzioni. Dalle verdi distese di quello che era una zona adibita a parco, poi ippodromo e infine, mestamente, baraccopoli durante la seconda guerra mondiale, sorge, come la fenice dalle proprie ceneri, a partire dal 1958, una maglia organica di linee e punti, che fluttua, quasi nel tentativo di camminare in punta di piedi su quella che è la natura del luogo, affidando con puntuale cadenza il proprio peso al supporto di esili pilotis. Ma il reale significato di questa scelta va ricercato in quello che è il più vicino al senso primigenio della soluzione tecnologica, incarnato dall’immagine atavica della palafitta, il cui scopo è soprattutto di difendersi, quasi istintivamente, come in memoria di sofferenze passate, dalle ormai in gran parte scongiurate inondazioni dell’ansa da parte del Tevere.

Un cortina di mattoncini chiari, un beige che riporta alla mente quelle fabbriche dal sapore cromatico dei tempi d’oro dello Stato Pontificio, specialmente di quelle opere realizzate nelle sue Marche adriatiche, e che tanto contraddistinguono l’identità costruttiva della nostra nazione ai tempi del suo Rinascimento, è il contesto scenografico di una ristretta serie di azioni di vita urbana, preponderantemente residenziali, narrate nell’intima realtà di un quartiere ben -o mal- delimitato sia esteticamente, sia morfologicamente e a sua volta tagliato in due da un elemento contraddittorio nella sua forma e funzione, soprattutto nato e trattato in sede di progetto come un cesura interna, perdendo così l’occasione, forse in tempi non maturi, di conferirgli il ruolo inverso di cerniera. Questo elemento, longilineo come il carattere dell’ edificato, che si staglia con la sua altezza digradante al centro del piccolo borgo intra-urbano, è l’imponente viadotto costruito da Pier Luigi Nervi per connettersi al ponte Flaminio, lungo il Corso di Francia. La struttura, che ha l’unico vero difetto di avere il “volgare” prefisso di infra-, che gli conferisce un ruolo pratico, immanente, possiede in nuce la ieratica monumentalità di un tempio dorico, nella scansione ritmica dei sostegni, energici e rastremati, nelle dimensioni e nella purezza materica e monocromatica del bruto cemento armato.

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In ogni caso la vita scorre, più o meno rarefatta, più o meno volontariamente, sotto questa foresta di piloni e pilotis, mentre la popolazione del luogo si percepisce come in una fase di crisi, nel senso più vero del termine. Infatti i vecchi abitanti stanno lasciando il posto a una nuova generazione di piccolissimi, portati da giovani famiglie che, non essendo cresciute nel “Luogo”, non appartengono alla memoria di esso, preparando così la storia del quartiere ad un bel salto generazionale.

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Molto potrà andare perduto, ma infinite sono anche le opportunità di ricostruire un’identità e un ruolo agli oggetti e agli eventi che si presentano all’interno del “villaggio”, attraverso una reinvenzione e riponderazione di alcuni spazi ed attività, alcuni in disuso, altri atrofizzati, altri davvero troppo estesi.

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